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Giuseppe Montorro - Qualche notizia
_Sono nato moltissimi anni or sono ( anno 1924 ) in un
piccolo borgo della Calabria ed un pò alla volta, come tutti, sono cresciuto,
tanto cresciuto che ormai mi avvicino agli 88 anni.
All’epoca parlare di fotografia aveva il senso della magia. Tanto è vero che non se ne parlava. Rivedere la propria immagine su qualche fototessera incollata sul proprio documento scolastico, o qualche gruppo di famiglia, due erano gli effetti: non si prendeva in considerazione la cosa ovvero si pensava a qualche effetto straordinario.
Tuttavia, per quanto riguardava la mia vita di ragazzo, il tutto mi lasciava indifferente.
Nel 1947 solo per caso ho avuto qualche contatto fisico con un apparecchio fotografico.
( un grosso, grande apparecchio a soffietto, collocato su un instabile cavalletto, anche questo in legno, adoperato esclusivamente con lastre ortocromatiche a loro volta riposte in un contenitore denominato chassis che sembra sia stato inventato nel 1905. Obiettivo di media focale, tempi di esposizione impropriamente valutati mediante un cappuccio di cartone pressato che veniva agito a mano. Ancora non si parlava di otturatori o altro congegno di precisione. Sembra inverosimile, ma era così.
Il mercato non disponeva di riviste specializzate sull’argomento, tantomeno di libri. Inoltre, come aggravante, eravamo da poco usciti da una stupida guerra che aveva ostacolato ogni progresso tecnologico.
In verità non era entusiasmante per le persone “normali”. Era un lavoro riservato a pochi, definiti professionisti.
Ma le questioni tecniche hanno sempre lambito il mio cervello ed allora, ostinatamente, ho tentato di scoprire “la magia” della fotografia. Insuccesso dopo insuccesso sono arrivato a scoprire che tale attività avrebbe potuto essere anche alla mia portata. Nel frattempo il mercato iniziava ad offrire qualche pubblicazione e così, un po’ alla volta, mi sono immerso in una via senza ritorno. Ho imparato ad usare i diversi congegni dell’apparecchio fotografico ed a studiare la relativa chimica che evidenziava le immagini riprese sui diversi supporti moderni. Le pellicole non erano tante, la loro sensibilità era molto bassa, gli obiettivi di diversa lunghezza focale apparivano come grande novità. Infine un apparecchio Leica è apparso al mio orizzonte: obiettivi intercambiabili con innesto a vite, messa a fuoco a mezzo telemetro, la parallasse, e tante altre piccole diavolerie che mi facevano toccare il cielo con una mano. Con i pochi denari di cui disponevo mi sono abbonato all’unica rivista sul mercato: Ferrania.
La Ferrania era una società per azioni nata nell’omologo paese esistente in provincia di Savona che pubblicava la rivista predetta dove venivano “esaltati” diversi argomenti tecnici. Incuriosito dei vari progressi fotografici che venivano pubblicati, ho avuto il coraggio di scrivere alla stessa ditta offrendo alcune mie modeste, ma curiose, interpretazioni. Con mia sorpresa sono stato accolto con grande considerazione, tanto da stabilire un colloquio di collaborazione permanente. Conservo, quale ricordo, qualche documentazione di quel periodo.
Dall’indifferenza al fanatismo per la fotografia: è stato un passaggio duro che mi ha coinvolto sino all’inverosimile. Non mi soffermo sui particolari anche per non infastidire chi avrà la ventura di leggermi. Comunque desidero aggiungere che amavo la “perfezione” ed ogni immagine doveva avere i veri requisiti della fotografia, naturalmente in bianco e nero.
Successivamente è apparso anche “il colore” ed ironicamente parlavo di immagini colorate perché nulla di stampato o proiettato mi convinceva, soprattutto per la falsa resa cromatica.
Cercavo nella mia mente qualcosa di nuovo. Soffermandomi sul significato di fotografia (scrivere con la luce), verso la fine dell’anno 1986, mi venne un’idea e dopo tante riflessioni ed incertezze, tentai di attuarla. E precisamente: sempre a mezzo dell’apparecchio fotografico realizzare “immagini pittoriche”. Con poche cose ho allestito una specie di sala di posa. Acquistai alcune lampade tipo spot a grande potenza e colorate che illuminavano il soggetto, miscelando la luce per avere una diversa risultante di colore, adoperando pellicole invertibili ( cioè per diapositive e possibilmente scadute) che facevo sviluppare con bagni per pellicole a colori normale. Ovviamente inventavo i tempi di esposizione. Inizialmente il risultato è stato mediocre, ma prendendo nota di tali esperimenti via via sono arrivato a traguardi che credevo irraggiungibili. Pannelli di grandi dimensioni o immagini incorniciate esistenti presso la mia abitazione o presso terzi, testimoniano il risultato. Possono piacere o non piacere, ma questo è un altro argomento.
Con tale “invenzione” sono andato avanti per alcuni anni, ma senza trascurare la fotografia tradizionale.
Tutto questo finchè non è arrivato “ il digitale “.
Confesso che sino al 2001, mai avevo usato, neanche spolverato, un computer. Tutto questo senza essere contrario alle nuove tecnologie, anzi.
E qui ha inizio una ulteriore avventura.
Prima di ogni cosa capire il funzionamento di un computer: ogni manovra, la più semplice, anche a causa del linguaggio da me sconosciuto, sembrava una conquista. Un mondo lontano e diverso sulle cose semplici, figuriamoci volere gestire un programma di fotografia. La pazienza e la perseveranza sono stati i miei “amici” di quel momento.
Superate le oggettive difficoltà dell’informatica, apprezzavo i primi risultati ed anche se non erano perfetti, mi consigliavano ad insistere.
Adoperando il computer e relativi programmi per la gestione dell’immagine mi sono accorto che oltre alla “pura“ fotografia si potevano realizzare anche “cose strane“, ovvero immagini dovute all’immaginario e via dicendo. In quel momento esultai per la gioia perché, finalmente, avrei potuto sbizzarrirmi su altre.....strade. Ed un po’ alla volta, facendo leva sulla mia fantasia ed affinando la mia creatività, ho dato inizio ai “miei scarabocchi“ che possono essere accompagnati da qualunque libera interpretazione e/o critica.
Tuttavia mi rimane il dubbio se tali “scarabocchi” sono mie “creazioni“ ovvero perché psicologicamente affetto da sinestesia.
All’epoca parlare di fotografia aveva il senso della magia. Tanto è vero che non se ne parlava. Rivedere la propria immagine su qualche fototessera incollata sul proprio documento scolastico, o qualche gruppo di famiglia, due erano gli effetti: non si prendeva in considerazione la cosa ovvero si pensava a qualche effetto straordinario.
Tuttavia, per quanto riguardava la mia vita di ragazzo, il tutto mi lasciava indifferente.
Nel 1947 solo per caso ho avuto qualche contatto fisico con un apparecchio fotografico.
( un grosso, grande apparecchio a soffietto, collocato su un instabile cavalletto, anche questo in legno, adoperato esclusivamente con lastre ortocromatiche a loro volta riposte in un contenitore denominato chassis che sembra sia stato inventato nel 1905. Obiettivo di media focale, tempi di esposizione impropriamente valutati mediante un cappuccio di cartone pressato che veniva agito a mano. Ancora non si parlava di otturatori o altro congegno di precisione. Sembra inverosimile, ma era così.
Il mercato non disponeva di riviste specializzate sull’argomento, tantomeno di libri. Inoltre, come aggravante, eravamo da poco usciti da una stupida guerra che aveva ostacolato ogni progresso tecnologico.
In verità non era entusiasmante per le persone “normali”. Era un lavoro riservato a pochi, definiti professionisti.
Ma le questioni tecniche hanno sempre lambito il mio cervello ed allora, ostinatamente, ho tentato di scoprire “la magia” della fotografia. Insuccesso dopo insuccesso sono arrivato a scoprire che tale attività avrebbe potuto essere anche alla mia portata. Nel frattempo il mercato iniziava ad offrire qualche pubblicazione e così, un po’ alla volta, mi sono immerso in una via senza ritorno. Ho imparato ad usare i diversi congegni dell’apparecchio fotografico ed a studiare la relativa chimica che evidenziava le immagini riprese sui diversi supporti moderni. Le pellicole non erano tante, la loro sensibilità era molto bassa, gli obiettivi di diversa lunghezza focale apparivano come grande novità. Infine un apparecchio Leica è apparso al mio orizzonte: obiettivi intercambiabili con innesto a vite, messa a fuoco a mezzo telemetro, la parallasse, e tante altre piccole diavolerie che mi facevano toccare il cielo con una mano. Con i pochi denari di cui disponevo mi sono abbonato all’unica rivista sul mercato: Ferrania.
La Ferrania era una società per azioni nata nell’omologo paese esistente in provincia di Savona che pubblicava la rivista predetta dove venivano “esaltati” diversi argomenti tecnici. Incuriosito dei vari progressi fotografici che venivano pubblicati, ho avuto il coraggio di scrivere alla stessa ditta offrendo alcune mie modeste, ma curiose, interpretazioni. Con mia sorpresa sono stato accolto con grande considerazione, tanto da stabilire un colloquio di collaborazione permanente. Conservo, quale ricordo, qualche documentazione di quel periodo.
Dall’indifferenza al fanatismo per la fotografia: è stato un passaggio duro che mi ha coinvolto sino all’inverosimile. Non mi soffermo sui particolari anche per non infastidire chi avrà la ventura di leggermi. Comunque desidero aggiungere che amavo la “perfezione” ed ogni immagine doveva avere i veri requisiti della fotografia, naturalmente in bianco e nero.
Successivamente è apparso anche “il colore” ed ironicamente parlavo di immagini colorate perché nulla di stampato o proiettato mi convinceva, soprattutto per la falsa resa cromatica.
Cercavo nella mia mente qualcosa di nuovo. Soffermandomi sul significato di fotografia (scrivere con la luce), verso la fine dell’anno 1986, mi venne un’idea e dopo tante riflessioni ed incertezze, tentai di attuarla. E precisamente: sempre a mezzo dell’apparecchio fotografico realizzare “immagini pittoriche”. Con poche cose ho allestito una specie di sala di posa. Acquistai alcune lampade tipo spot a grande potenza e colorate che illuminavano il soggetto, miscelando la luce per avere una diversa risultante di colore, adoperando pellicole invertibili ( cioè per diapositive e possibilmente scadute) che facevo sviluppare con bagni per pellicole a colori normale. Ovviamente inventavo i tempi di esposizione. Inizialmente il risultato è stato mediocre, ma prendendo nota di tali esperimenti via via sono arrivato a traguardi che credevo irraggiungibili. Pannelli di grandi dimensioni o immagini incorniciate esistenti presso la mia abitazione o presso terzi, testimoniano il risultato. Possono piacere o non piacere, ma questo è un altro argomento.
Con tale “invenzione” sono andato avanti per alcuni anni, ma senza trascurare la fotografia tradizionale.
Tutto questo finchè non è arrivato “ il digitale “.
Confesso che sino al 2001, mai avevo usato, neanche spolverato, un computer. Tutto questo senza essere contrario alle nuove tecnologie, anzi.
E qui ha inizio una ulteriore avventura.
Prima di ogni cosa capire il funzionamento di un computer: ogni manovra, la più semplice, anche a causa del linguaggio da me sconosciuto, sembrava una conquista. Un mondo lontano e diverso sulle cose semplici, figuriamoci volere gestire un programma di fotografia. La pazienza e la perseveranza sono stati i miei “amici” di quel momento.
Superate le oggettive difficoltà dell’informatica, apprezzavo i primi risultati ed anche se non erano perfetti, mi consigliavano ad insistere.
Adoperando il computer e relativi programmi per la gestione dell’immagine mi sono accorto che oltre alla “pura“ fotografia si potevano realizzare anche “cose strane“, ovvero immagini dovute all’immaginario e via dicendo. In quel momento esultai per la gioia perché, finalmente, avrei potuto sbizzarrirmi su altre.....strade. Ed un po’ alla volta, facendo leva sulla mia fantasia ed affinando la mia creatività, ho dato inizio ai “miei scarabocchi“ che possono essere accompagnati da qualunque libera interpretazione e/o critica.
Tuttavia mi rimane il dubbio se tali “scarabocchi” sono mie “creazioni“ ovvero perché psicologicamente affetto da sinestesia.